Se facciamo questo lavoro è perché crediamo davvero nel potenziale rivoluzionario della bici per il futuro delle città. Ma più in generale crediamo nella libertà delle persone di scegliere come muoversi e di essere messe nella condizione di farlo. Eppure a volte mi sembra che sia diventato addirittura vietato camminare.
Qualche tempo fa, in una giornata di tempo incerto, ho deciso di spostarmi dall’ufficio alla biblioteca cittadina, dove vado ad occuparmi dei compiti che richiedono maggiore concentrazione, a piedi.
Una bella camminata di quasi cinque chilometri, ma come penso sempre: perché è considerato normale trovare il tempo di fare sport, mentre impiegare più tempo per spostarci facendo al contempo attività fisica ci sembra una perdita di tempo?
Clorofilla si trova in una zona artigianale a poca distanza dalla via Emilia, la principale arteria di traffico dell’entroterra romagnolo dopo la A14 (sebbene in molti tratti sia rimasta identica a com’era cinquant’anni fa).
Percorrere i 300 metri che separano la zona artigianale dall’inizio della pista ciclopedonale che porta in città è stata forse la cosa più pericolosa che ho fatto negli ultimi anni, e non faccio una vita propriamente sedentaria. La strada di collegamento è infatti completamente priva di banchina. Di marciapiede ovviamente neanche a parlarne.
Farebbero bene a metterci un cartello con scritto: “Vietato camminare”. E’ una strada che percorro spesso in bici, e anche su due ruote è decisamente pericolosa. L’asfalto è malmesso, la carreggiata stretta e il traffico intenso. A piedi, però, diventa davvero terribile.
Sulla via Emilia un minimo di spazio tra la carreggiata e le case mi consente di camminare più agevolmente, per quanto facendo attenzione alle auto che si fermano a bordo strada arrivando a velocità sostenuta per la sosta al bar più vicino.
Finalmente raggiungo la ciclopedonale, ben fatta, separata dal traffico da un cordolo di sicurezza, larga abbastanza per consentirmi di camminare senza problemi anche quando incrocio delle bici. Dalla prima periferia della città arriva fino alla cinta muraria del centro e mi consente di camminare tranquillamente fino a destinazione ascoltando un po’ di musica e facendo qualche telefonata.
Mentre cammino rifletto però su quello che cercherò di spiegarvi. Spostarsi a piedi, prima ancora che in bicicletta, dovrebbe essere la cosa più naturale del mondo. Camminare è l’unica forma di spostamento davvero alla portata di tutti, o di tutti coloro che hanno la fortuna di poter usare le proprie gambe. Qualunque altra forma di trasporto implica un costo, diretto o indiretto. Costo che, in base al mezzo “che ci si può permettere”, crea la gerarchia della strada.
Camminare è dunque una forma di spostamento altamente democratica, oltre che un gesto civile, benefico, a impatto zero, con un ritorno sulla salute dell’ambiente e delle persone. Farlo dovrebbe essere facile, o, quantomeno, consentito.
Le nostre città però, e forse ancora di più le nostre periferie, si sviluppano da quasi settant’anni attorno ai mezzi a motore. Al punto che in alcuni posti non è praticamente più possibile spostarsi a piedi.
La strada che ho percorso per poche centinaia di metri raggiunge il primo abitato a un paio di chilometri dalla zona artigianale, e per una persona che volesse percorrerla a piedi è sostanzialmente off-limits. La riga bianca al bordo della carreggiata si trova a pochi centimetri dalla scarpata che dà sui campi sottostanti da un lato e dai cancelli delle proprietà private dall’altro. Non c’è letteralmente spazio per camminare.
Ora, in un momento storico in cui la libertà individuale sembra essere diventata il bene più prezioso per le persone, anche a discapito, ahimé, del senso civico e della convivenza, mi stupisce che nessuno si scandalizzi di fronte al fatto che siamo sostanzialmente obbligati a pagare per spostarci.
Un mezzo di trasporto pubblico sarebbe già un lusso, ma in molte zone dobbiamo pagare molto più di un biglietto dell’autobus per acquistare un mezzo di proprietà e continuare a pagare per mantenerlo. Un costo enorme di cui nessuno si lamenta.
Se non esistesse un’alternativa lo potrei capire. Avere un tetto sulla testa per esempio è piuttosto fondamentale per la nostra sopravvivenza. Ma avere un’auto o un motorino non lo è. Possiamo muoverci in altri modi. Eppure, di fatto, non è così.
Invertire la tendenza di sviluppo di una società che ha costruito le sue dinamiche e la sua ricchezza sui mezzi a motore non è facile. Forse non è proprio possibile. Sia chiaro, con questo non voglio demonizzare i mezzi a motore, che hanno rappresentato e ancora rappresentano essi stessi la libertà per tutti coloro che necessitano di spostarsi su lunghe distanze e per tutti noi che oggi siamo abituati a saltare in macchina dieci volte al giorno per qualunque cosa ci serva.
Non sto auspicando un ritorno alle quattro ore di cammino per andare e tornare da scuola di cui ho sentito raccontare dai miei nonni. Ma attenzione, non tutti possono permettersi un mezzo di proprietà. E anche a queste persone, o a chi semplicemente si vuole muovere in modo diverso, dovrebbe essere permesso farlo.
Capita di leggere a volte la notizia di qualche pedone travolto su strade dove non si usa camminare. I commenti sui social sono aberranti, come se non fosse lecito pensare di camminare ovunque (tranne che in autostrada, certo). Non sto rivendicando l’urgenza di avere ciclopedonali che corrano parallele a tutte le strade percorribili con altri mezzi (sebbene proprio di questo si parli nella neonata European Cycling Declaration).
Ma rifletto sull’assurdità di chi rivendica il proprio diritto di guidare a certe velocità e per questo osteggia i limiti ai 30 all’ora nelle città o gli autovelox e non si rende conto che sta rivendicando il diritto a restare schiavo di una certa modalità di spostamento.
Succede sempre più spesso che si confonda la difesa delle nostre convinzioni, scelte e abitudini con la difesa di una presunta libertà. Ma non esiste alcuna libertà che sia riservata a pochi. Essere liberi di correre in strada con la propria auto non è libertà. Libertà e diritti sono tali solo se sono per tutti. Le scelte che si fanno una volta che tali libertà siano garantite riguardano, queste sì, la sfera privata.
Allora facciamo attenzione alle libertà che difendiamo e a quelle che, senza nemmeno che ce ne accorgessimo, ci sono state sottratte già da tempo. Ai tempi del Covid gli strenui difensori della libertà personale portavano l’esempio della rana che muore lentamente in pentola per spiegare la situazione in cui ci trovavamo. Peccato che la povera rana venga scomodata solo quando ad essere minacciata non è la libertà di tutti (di muoversi, di esprimersi, di votare, di manifestare) ma le nostre personali abitudini e privilegi.